Ricordi di Filïeto

RICORDI DI FILÏETO1

La vita nella villa e annessa fattoria di Filïeto, dove ho trascorso la mia infanzia e oltre, si svolgeva in una maniera tutta particolare. Era una comunità quasi autosufficiente dove ogni membro aveva un ruolo con compiti determinati in un preciso ordine gerarchico.

La padrona, la Signora, lontana dalle incombenze della vita, aveva di fatto delegato la gestione al fattore, che ben felice di quest'opportunità faceva e disfaceva a suo piacimento, come un maestro di palazzo nella Francia della fine del VII secolo. Dopo di lui c' era il sottofattore, aiutante senza potere, e vari domestici con la cuoca in posizione di prevalenza, e lo chauffeur2, più defilato e autonomo. Inoltre vi lavoravano alcuni operai, addetti alla manutenzione del giardino, del parco, all'allevamento degli animali da cortile ed al compimento di tutte quelle riparazioni che si rendevano necessarie. Tra questi, in ordine d' importanza, il Moro, una specie di factotum dalle innumerevoli capacità, il Rosso e Beppe.

La mia vita scorreva in parallelo con quella dei due figli del fattore, Alberto e Mino, e dei due del vicino contadino, il Baìni3, Franco e Duilio, tutti più o meno della mia stessa età. D' estate ricordo che andavamo scalzi e prima che i piedi si fossero riabituati eran dolori, specialmente quando avevano buttato il ghiaino nella piazzetta antistante la fattoria. Era un tipo con le punte non stondate come quello di mare che faceva un male cane!

La nostra occupazione principale era quella di giocare: a pallone, ai banditi e a rimpiattarelli. Quest' ultimo era un gioco molto popolare che consisteva nel rimpiattarsi, cioè nascondersi e poi fare in modo di non essere trovati da chi stava a bomba. Un altro gioco si chiamava a ciastrella4 e consisteva nel cercare di buttare giù delle figurine che venivano fatte stare ritte aiutandosi con la terra. Quelle buttate giù con la ciastrella erano il premio.

Ma lo svago principale consisteva nell' andare a caccia con la strombola. Veniva costruita con un forchino, fatto con un rametto duro e resistente, due grossi elastici e un pezzetto di cuoio. Così armati andavamo per la campagna a caccia di lucertole o facendo il tiro a segno. Una volta facemmo addirittura caccia grossa: una serpe botraccia5 che nuotava pigramente nel gozzo6 della cava della rena in fondo alle Grotte. Con un colpo di strombola ben tirato fu colpita alla testa e poi finita di ammazzare sulla riva. Il trofeo, con l' aiuto di una canna che lo sorreggeva a metà, fu portato in trionfo fino a casa, a testimonianza delle notevoli capacità venatorie dei cacciatori in erba che l' avevano catturata. Sul piazzale della fattoria fu sventrata da Duilio, il meno schizzinoso, rivelando la causa di quel notevole rigonfiamento che presentava. Aveva ingoiato una bodda7 intera e forse fu grazie al fatto che era nel momento della digestione che ci fu possibile catturarla.

In primavera andavamo a cavare i nidi. Ne facevano le spese passerotti, raperini8, cardellini e filunguelli9 principalmente. Non potevano però mancare le civette. Dopo ripetuti appostamenti riuscivamo a individuare il buco nel muro dove la civetta aveva fatto il nido e quando era giunto il tempo, né troppo presto né troppo tardi, andavamo a prendere il civettotto. Ci voleva un apposito attrezzo: un legno al quale veniva fissato un uncino di robusto fil di ferro, e con quello e una pila, all'imbrunire andavamo a cercare di tirar fuori il civettotto già impiumato col pelo matto. Cosa non semplice né agevole. Una volta preso doveva essere legato alla gruccia. Strisce di cuoio per fare i geti, una canna pulita e un bel tappo di sughero da damigiane costituivano l'occorrente. A quel punto si rivelava tutta l'utilità della strombola per catturare lucertole e qualche uccellino, ma non era per niente facile. La dieta veniva integrata con pezzi di pina10 o di polmone che prendevamo dal macellaio. Una cosa buffa succedeva quando mangiava una lucertola. Iniziava a cibarsi dalla testa e la ingeriva intera di modo che si ritrovava colla coda che penzolava a lungo dal becco. Invece gli uccellini li mangiava a pezzetti, penne e tutto. Una volta ci capitò di allevare un falchetto, un gheppio femmina che chiamammo Kes. Quando ce lo portarono cavato da un nido nella piana di Lorenzana, era tutto bianco, un batuffolo di cotone. Anche lui venne impastoiato e abituato a stare sulla gruccia. Una volta cresciuto veniva lasciato volare libero, per poi tornare sulla gruccia. Cominciava ad innalzarsi nel cielo a cerchi concentrici, sfruttando le correnti ascensionali calde, andava sempre più su, finché appariva come un puntino alto nel cielo. A quel punto noi ragazzi si andava nella valle, perché la discesa doveva essere planata. Uno di noi, più avanti rispetto agli altri, con la mano destra guantata, lo richiamava con un fischio acutissimo. Riconosciuto il richiamo, al quale era stato abituato ogni volta che mangiava, si buttava giù in picchiata e veniva a posarsi sulla mano, gli ultimi metri veleggiando in qua e in là, salutando il padrone con un pigolio affettuoso una volta posato sulla mano. Quando fu il suo tempo, gli demmo la via. Svolazzò alcuni giorni nel giardino e poi sparì.

Filïeto era tutto il nostro mondo, e in particolare il podere che portava lo stesso nome. Centro principale e luogo continuo di infinite possibilità di svago, basti pensare al pulaiolo nel quale ci tuffavamo per uscirne pieni di pula da far paura senza pensare al rischio di prendere la gatta porcina11.

Tra la casa del Baìni e la fattoria c'è una piazzetta a quel tempo abitata da diverse famiglie.Tra queste c'era quella di Argene con i figli. Mario, il poeta, e Maria. Mario era una persona che colpiva la fantasia di tutti e non solo di noi bambini. Cantava di verso con rime baciate e improvvisate; in pubblico sfidava altri poeti come lui richiamando molta gente che stava ad ascoltarli per ore. Ma a noi era utile perché raccoglieva stracci e ferrivecchi, e questo ci permetteva di racimolare qualche soldo portandogli pezzi di ferro, di rame, d'ottone o di piombo, quello che riuscivamo a trovare, o pelli di coniglio, ma di rado, perché venivano vendute a un cenciaio che passava ogni tanto a comprarle. Quando veniva ammazzato un coniglio c'era una pelle che, rivoltata, riempita di paglia e messa ad asciugare aspettava il suo turno, talvolta sbattuta e appiccicata sul muro quando era sempre fresca.

Il coniglio veniva ammazzato con un sistema molto efficace, che anch'io ho usato. Preso per le zampe di dietro con la mano sinistra, veniva lasciato penzolare finché non era calmo. Poi con la mano destra, le donne usavano un bastone, gli veniva data con il palmo della mano di taglio una gran botta sul capo in modo da staccarglielo internamente dal collo. Il coniglio poi veniva spellato cominciando dalle zampe posteriori e facendo in modo che la pelle venisse tirata via tutta intera senza sciuparsi. Bisognava essere in due: uno tirava la pelle da una parte e uno reggeva il coniglio per le zampe posteriori dall'altra. Gli altri passaggi consistevano nello sventrarlo, togliere il fegato mettendolo da parte ed eliminare il sarvatïo12.

In un altro piccolo fondo c'era la bottega di Drea, il fabbro, artigiano capace che faceva piccoli lavori per il circondario.

Continuando, dal lato opposto, più avanti, c'era Albertino che s'ingegnava a vendere granaglie, sfarinati e altro. Possedeva un cavallo con calesse che usava per recarsi nei paesi vicini. In cima alla strada, c'era il Trilli, il falegname. Il locale nel quale lavorava, riempito fino all'inverosimile di attrassi13, e pieno di polvere, era più in basso del terreno retrostante, quindi senza finestre e sempre poco illuminato. Questa poca luce permetteva però di vedere quella che per noi ragazzi era la cosa più interessante e meravigliosa di tutta la bottega: in fondo, sulla destra, in alto, c'era una scimmietta imbalsamata capitata lì forse reduce da qualche campagna d'Africa.

Oltre il negozio di Pio c'era la Piazza: ma il nostro mondo per tanti anni si fermò lì.

Un avvenimento a parte era costituito dall'arrivo di Beppe il pesciaio. Veniva a vendere il pesce da Pontedera e quando arrivava era una festa! Il suo avviso: Donne è rivato Beppe, rivitalizzava la via che si riempiva subito di gente ansiosa di fare acquisti. Il pane invece lo portava il Milianti di Cenaia. Un pane saporito e cotto a puntino che si perde tra i miei ricordi come una cosa mitica.

I grandi avevano la Bua14 verde, proprio davanti all'entrata della villa. Mitica pista da ballo all'aperto tra tigli grandissimi. Era la più famosa della zona e richiamava orde di ballerini dai paesi vicini, ansiosi di divertirsi. Tutta circondata da alte piante di bosso potate come fossero mura di un castello e con un bersò dove erano tenute le bibite in fresco.

Tra gli altri avvenimenti successi in Filïeto ricordo la fuga precipitosa di una mucca del Baïni scappata dalla stalla e andata a schiantarsi sulla Piazza nel muro del Ciuti dove fino a non molto tempo fa era sempre visibile il punto nel quale aveva picchiato. Aveva percorso Filïeto come un razzo tutto a diritto!

Un altro animale che ha un posto speciale nei miei ricordi è il mulo di Vasco.

Ero abituato ai muli con i quali avevo fatto conoscenza fin da piccolo sui sentieri di montagna sopra Camaiore. Animali possenti ma pacifici e ubbidienti con il basto sempre pieno di legna che trasportavano giù dalla montagna. Ma quello di Vasco era tutta un'altra cosa! Era una furia scatenata che ogni tanto scappava e correva come un matto per il paese. Trovarselo davanti mentre andavo alle elementari non era per niente piacevole: rischiava di travolgere tutto e tutti. O per lo meno così sembrava a me perché non sono mai venuto a sapere di incidenti.

Tornando alla vita della fattoria, pur autosufficiente in larga misura, denotava tuttavia la continua ricerca di attività nuove e possibilmente lucrose. Penso ai vari tentativi di allevamenti di animali. Mentre non ho mai visto né cani né gatti: forse non rendevano! Uno di questi fu quello di allevare dei conigli d'angora. Vaporosi esseri con il pelo lunghissimo che erano stati messi a dimora in una stanza a pianterreno dentro delle gabbie speciali. Un altro fu l'allevamento dei polli. Anche in questo caso fu presa una stanza a pianterreno con il pavimento ricoperto di segatura e riempita con centinaia di pulcini ai quali veniva somministrata la vitamina15 per farli crescere più in fretta e con la luce sempre accesa perché mangiassero anche di notte.

Per noi ragazzi l'acquisto dei pulcini era un'occasione di svago. Si andavano infatti a comprare dai frati alla Certosa di Calci, e oltre al viaggio si guadagnava sempre una bottiglina di rosolio di loro produzione. Un liquido coloratissimo, rosso o verde a scelta, dolcissimo, dentro un piccolissimo fiaschettino.

Un'attività importante, che coinvolgeva molte persone, era quella rivolta alla preparazione della conserva di pomodoro per l'inverno. Alla fine centinaia di bottiglie distese l'una accanto all'altra, in appositi scaffali di legno, facevano la loro bella mostra in uno stanzone a pianterreno, fino all'anno dopo. Il segnale d'inizio era dato dal Moro che dava l'ordine di andare a prendere i pomodori al Pettinaccio. Ci andavamo anche noi ragazzi: come potevamo mancare quando c'era da fare baldoria? All'andata, con il carretto vuoto, era uno spasso. Trainato da un ciuco, e guidato da Pepolino, con noi sopra, partiva dalla fattoria, arrivato al Poggio svoltava a destra, e all'inizio della discesa veniva lanciato a rotta di collo in una volata fantastica e divertente con noi sballottati in qua e là ma felici e contenti. Al ritorno, con noi a piedi, il carretto era pieno di cassette di pomodori maturi e pronti a essere lavorati. Venivano preparati due tipi di bottiglie: un tipo pieno di salsa con pezzi di pomodoro e un tipo con la passata, che costituiva la stragrande maggioranza. Dopo essere stati cotti i pomodori venivano passati al passatutto. Poi il Moro provvedeva a mettere la conserva nelle bottiglie e qui c'era il colpo di teatro, la cosa inaspettata che lasciava a bocca aperta. Usando un normale imbuto infilzato nella bottiglia da riempire, il buco si sarebbe ristretto: come fare? Semplice. Veniva usata una mezza bottiglia di vetro come imbuto. Capovolta, cioè girata dalla parte del buco, formava un tutt'uno con la bottiglia da riempire e il buco non veniva rimpicciolito. Ma come tagliare la bottiglia al punto giusto? Semplice. Veniva riempita d'olio fino a metà. Poi veniva inserito un ferro rovente nella bottiglia che all'altezza dell'olio la tagliava perfettamente senza romperla. Il risultato era l'imbuto perfetto per mettere la conserva nelle bottiglie. Fenomenale e geniale!

Poi le bottiglie venivano tappate con una macchinetta. Il tappo di sughero veniva leggermente toccato nell'olio e una volta messo, la parte che rimaneva fuori veniva legata in croce con dello spago grosso che poi veniva fermato al collo della bottiglia sotto un ingrossamento anulare che sembrava fatto apposta. Le bottiglie venivano poi portate in un grande bollitore di ferro con un apertura sotto per alimentare il fuoco; stese a strati, alternate con paglia, in modo che nel bollire non si rompessero. Il bollitore, all'incirca, era alto un metro e mezzo e aveva un diametro di un metro. Le bottiglie venivano fatte bollire per 20/30 minuti, e poi lasciate a raffreddare nell'acqua.

Ma ci sono altri tre avvenimenti nella vita di Filïeto che meritano di essere ricordati: la luminaria per la processione di Cristo morto, la processione del Corpus Domini con le strade fiorite e i fuochi di San Giovanni.

La processione di Cristo morto veniva fatta di notte con tutte le strade del paese illuminate. In Filïeto, il compito era del personale della fattoria che provvedeva a preparare il tratto di strada interessato in una maniera del tutto particolare. Su tutte le finestre e sul muro dall'altra parte della strada venivano messi dei lumini fatti con gusci di chioccioloni che noi ragazzi andavamo a cercare nella campagna nei giorni precedenti. Insieme a questi cercavamo la mota arzilla16 che sarebbe poi servita per farli stare fermi. Una volta riempiti di olio vecchio e con inserito un pezzetto di spago come stoppino, e accesi, avrebbero fatto la loro bella figura durante la processione creando un'atmosfera molto religiosa e al tempo stesso magica.

La processione del Corpus Domini, come quella di Cristo morto, si snodava per le vie del paese infiorate, ma nel pomeriggio. In Borgo Gigino usava addirittura la segatura colorata per fare dei disegni dai colori sgargianti e bellissimi. I disegni infiorati di solito si trovavano davanti alla porta delle abitazioni principali e in Filïeto uno non poteva mancare davanti alla porta della villa.

I disegni, di carattere religioso logicamente, venivano fatti con i bottoni17 e poi riempiti con petali di uno stesso tipo di fiore in modo da avere un colore omogeneo. Per unire un disegno all'altro venivano tracciate due righe parallele così da formare un sentiero, aiutandosi con delle funi per farle diritte. Due lunghe strisce verdi con felci tagliate a pezzetti e riempite con petali vari mescolati. Per sminuzzare le felci veniva usata la macchina tagliaerba del Baini che serviva per tagliare l'erba per le bestie. I fiori, raccolti dalle donne, erano per lo più bottoni dal bel colore giallo, papaveri, fiordalisi, e altri, compresi i fiori del giardino della villa. Tutti rimanevano coinvolti e partecipavano con piacere alla buona riuscita dell'infiorata.

In ultimo rimane da parlare dei fuochi di San Giovanni, nella notte del 24 giugno. Su un lato della strada, davanti al cancello della vitta del Poggio, all'altezza della casa del Baïni, venivano accatastate della fascine secche alle quali veniva dato fuoco e i ragazzi, ed anche persone più grandi, quando era un po' calato, lo saltavano più volte in una gara entusiasmante anche se senza vincitori. Poi di nuovo ci venivani buttate sopra nuove fascine e tra salti, grida e schiamazzi si celebrava la festa di San Giovanni, festa pagana del solstizio d'estate sopravvissuta dalla notte dei tempi, rielaborata e fatta propria dalla chiesa, e ora da noi purtroppo scomparsa a differenza di altri paesi dove è stata mantenuta in vita nel quadro di quel recupero delle tradizioni antiche che sempre più entusiasma i turisti.

Questo è uno squarcio aperto sugli anni del dopoguerra vissuti nell'ambiente di un piccolo paese di campagna che vedeva le prime avvisaglie del boom e del miracolo economico. Presto sarebebro arrivate le macchine, la Topolino, la giardinetta, la vespa e la prima televisione del paese marca Magnadyne sarebbe apparsa nel salotto della Signora a disposizione anche degli abitanti di Filïeto, a dimostrazione che la vita della fattoria si sviluppava in simbiosi con quella del posto, in un continuo dare e ricevere, con benefici da entrambe le parti. Un mondo ormai scomparso che come tutte le cose che non ci sono più, forse appare più bello di com'era e si ricorda con nostalgia.

Dal libro “Ricordi di Crespina” di Maurizio Camarlinghi 2004

 

 1Filicheto

2Autista

3Bachini, soprannome di una famiglia di contadini mezzadri della fattoria.

4Piastrella

5Biscia dal collare

6Piccolo specchio d'acqua

7Rospo

8Verzellini

9Fringuelli

10Cuore di bue

11Acaro della pula

12Ghiandole dentro le carni e che vanno tolte prima della cottura sennò danno un cattivo sapore (di selvatico). Due si trovano nelle cosce posteriori e due ai lati della spina dorsale

13Materiale vario accatastato senz'ordine

14Buca

15Mangime sfarinato per polli

16Argilla

17Emethis tinctoria