Introduzione alla 1ᵃ edizione

INTRODUZIONE

Il libro nasce nel febbraio del 2003 come un progetto di recupero delle parole che sono ancora vive nelle nostre zone con particolare riguardo logicamente al paese nel quale vivo.

La pubblicazione della bozza e stata fatta nel febbraio 2003 su Internet. Pensavo che questo mi avrebbe permesso un aggiornamento continuo mano a mano che fossi venuto a conoscenza di nuove parole attraverso segnalazioni. Di fatto e avvenuto in piccola misura. Alla fine di marzo del 2004 l’ho tolta. Il Progetto si chiamava SINN,  acronimo della frase Salviamo I Nostri Nomi, con sottotitolo Frugare e invenire nomi1, e nasceva dall’esigenza di cercare di mantenere in vita quei nomi che sono ancora vivi nella memoria storica degli abitanti di queste zone, prima che scompaiano per sempre. Il sottotitolo, con parole un po’ ricercate, voleva appunto sottolineare la necessità di cercare con tenacia al fine di scovare queste parole che possono così essere raccolte e salvate. Invenire e una parola un po’ desueta ma bisogna considerare che e tutto relativo: basti pensare che la stessa parola in latino, nel Satyricon di Petronio e confinata nella parte che riguarda il banchetto di Trimalcione dove e il popolo che parla e quindi era una parola popolare che non si trova nel resto del libro. In questo sono mosso, come diceva Dante, dall’amore per la propria loquela, per ilproprio volgare (Convivio, Trattato I, Capitolo xii). Talvolta sono parole in dialetto, oppure parole italiane poco o per niente usate.

Le parole da me descritte sono quelle parlate normalmente nel Comune di Crespina e nelle zone limitrofe, talvolta con leggere varianti. Se poi si prendono in considerazione i toponimi, si nota che spesso non é più possibile capire il loro significato: mentre e facile per la località “Il colle”, comincia ad essere più difficile per “La grotta dell’inferno” che evoca la visione di un antro pieno di fiamme. Si tratta invece di una strada in salita (in dialetto grotta) a Belvedere. Lungo questa salita scorreva, quando era in funzione il frantoio della fattoria, l’olio dell’inferno, che proveniva cioè da quel locale adibito alla raccolta della morca. Era quindi la salita lungo la quale scorreva l’olio dell’inferno.

Altro caso e quello di “Sottologhi”: mi e stato impossibile, per tantissimi anni, capirne il significato. Mi ero sempre domandato cosa volesse dire, cosa mai fossero questi “luoghi”, ma non ero mai riuscito a immaginarmelo.

Poi, un giorno, rileggendo I Promessi Sposi, arrivai al punto (capitolo III) nel quale Renzo parte con i capponi per andare dal dottor Azzeccagarbugli e la soluzione era lì, gentilmente offertami dal Manzoni:

Così, attraversando i campi o, come dicon colà , i luoghi, se n’andò per viottole, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzeccagarbugli”. Ecco cos’erano i loghi, erano i campi coltivati intorno al paese costeggiati da una strada che prendeva appunto il nome di “Sottologhi”. E torna con il fatto che più in là ci fossero “Le prata” che non erano campi coltivati ma solo prati. A quel punto andai a vedere il vocabolario di latino e trovai la conferma che locus voleva dire campo.

Di queste parole sono arrivato a capirne il significato, ma di quante altre purtroppo non lo sapremo mai! Penso, per esempio, a Valdisonzi o Vallisonzi: a prima vista sembra la valle dei sonzi? e cos’erano i sonzi? oppure bisogna considerare che wald in longobardo significa bosco, e poi?

Non si tratta solo di fare una ricerca ma anche di ascoltare con attenzione e estrarre dal contesto la parola che un orecchio attento sente come dialettale o desueta in italiano. Anche volendo fare una seria ricerca sul territorio non è che poi sia tanto facile! Un cacciatore riconosce subito la foto di un animale. Ma se fai vedere a un bravo fungaiolo la foto di un fungo spesso non riesce a capire di che fungo si tratta. C’è da dire inoltre che è molto difficile capire il significato di parole ancora in uso, ma solo presso le persone anziane, se non si e presenti al momento nel quale vengono pronunciate.

Io da anni mi sono messo ad ascoltare le persone appuntando su foglietti volanti quanto mi sembrava interessante annotare, e poi riportandolo su un quaderno. Sono parole “registrate” in anni di attento ascolto. In questo modo ho avuto la possibilità di sentire e annotare l’aggettivo lupato; ma se non ero presente quando un mio amico diceva: “Era lupato dentro”, non l’avrei mai saputo che esisteva questa parola! Il riferimento era ad un albero, apparentemente sano dal di fuori, che era cascato perché dentro, la parte interna, proprio nel mezzo, era tutta di colore marrone scuro e quindi già morta. Queste parole non credo sia possibile ricercarle con una seria indagine fatta su basi scientifiche: non puoi certo intervistare le persone e chiedergli: “Lei quando vede un albero per terra con la parte interna che è tutta marrone, e che dall’esterno non si immagina sia invece così, come dice che e?” Quando non sai nemmeno che la parola lupato esiste!

Nella scrittura è stata eliminata la c nelle parole nelle quali non viene detta nel parlare, trascrivendo tuttavia la parola italiana tra parentesi, e segnando talvolta l’accento quando è sembrato necessario per la pronuncia.

Per dare un’idea della difficoltà della pronuncia vorrei riportare due frasi:

Ha fame” (pronuncia: affame), riferito al gatto che miagola insistentemente, e “Ha’ (hai) fame?” (pronuncia: afame), domanda rivolta al gatto al quale si sta parlando. Ora non vorrei che qualcuno pensasse che sono matto perché parlo con il gatto. Il fatto è che il gatto qualche parola, meno di un cane, piano piano arriva a comprenderla. Se io gli domando se ha fame, se ha fame me lo dice con un breve miagolio, sennò sta zitto.

La c eliminata e la c intervocalica che in alcuni casi invece raddoppia: “vado a casa” (pronuncia: vado accasa), “torno da casa” (torno daccasa), “sto (abito) a Casoli” (sto accasoli). Lo stesso fenomeno appare in francese dove nel passaggio dal latino la c intervocalica tende a sparire (cfr. latino securus, francese sur, dialetto si-uro2; latino amica, francese amie, dialetto ami-a3).

Mi sembra necessario avvertire che la c intervocalica determina una pronuncia particolare della parola interessata per cui, ad esempio, abbiamo panicato che diventa pani-ato4, creando quindi uno iato e non un dittongo.

D’altra parte mi sembra illogico scrivere queste parole con la c in quanto esistono senza, e possono causare delle incomprensioni. A questo proposito mi ricordo che leggendo un libro nel quale era citato un personaggio crespinese di nome Buco, non l’avevo riconosciuto subito. Poi mi sono reso conto che era quel Buo di cui sentivo spesso raccontare una storia. A Crespina c’era la Banda comunale e tra i suonatori c’era anche questo Buo, anche se non era molto capace ed ogni tanto sbagliava una nota. Al capobanda che domandava chi aveva sbagliato rispondevano invariabilmente che era stato Buo. Una volta che alla stessa domanda avevano risposto che era stato Buo a sbagliare, il capobanda eccepì il fatto che Buo non c’era. E uno dei suonatori, un certo Valentino, rispose: “Buo anche se ’un c’è!

Un altro racconto che ho sentito spesso era quello di due crespinesi la prima notte di nozze: mentre lui era già pronto, lei continuava a trastullarsi per la camera senza decidersi ad andare a letto. Alla fine lui, che evidentemente non era proprio del tutto sprovveduto, e venutagli a noia l’attesa, l’invitò ad andare a letto dicendogli: “Gnamo, com’ene, ene.” Non avrebbe certo potuto dire: “Andiamo, com’è , è”. “Com’ene, ene” ha tutto un altro suono, un suono che affascina. Mi ricorda la scorrevolezza di una frase di Cesare nel De Bello Gallico (Libro I, § 12): “Flumen est Arar”, c’è un fiume di nome Arar (ora si chiama Saona), nella quale sembra quasi di avvertire lo scorrere del fiume.

Il lavoro non ha certo la pretesa di essere svolto su basi scientifiche ma vuole solo costituire un “deposito” di parole che potranno in un domani essere utili perché́ sempre più difficili da reperire. Il progetto era aperto a quanti avessero voluto dare il loro contributo per correggere eventuali errori ed imprecisioni o per integrarlo con parole nuove. In un secondo tempo lo scopo é cambiato. Quello che di fatto sarebbe stato un vocabolario é diventato solo un insieme di parole che ho sentito dire personalmente, per cui una parola dialettale che io non conosco non fa parte di questa raccolta. In pratica è una testimonianza “a futura memoria”, come usava dire nei telefilm americani, di quelle parole che io ho udito, che conosco con quella pronuncia e con quel significato. Appunto per renderlo più preciso ho riportato, quando mi è sembrato necessario, una breve frase come esempio.

Di altre parole ho segnalato il loro uso da parte di Dante o del Boccaccio come per nobilitarle, caso mai ce ne fosse bisogno! Ho messo in appendice alcuni elenchi di parole che mi è sembrato utile tenere raccolte insieme per facilitare eventuali ricerche, anche se sono inserite normalmente: animali, funghi, luoghi, che logicamente sono quelli nei quali vivo, modi di dire, piante e uccelli selvatici.

C’è inoltre da sottolineare che io ho lavorato dal di dentro, con tutti i vantaggi che ne derivano. Spiegandomi meglio, voglio dire che qualsiasi ricerca su un linguaggio svolta da uno che non lo usa come lingua materna, ha tutti gli svantaggi derivanti da questa situazione, il principale dei quali è che necessita di un intermediario. In questo caso “l’indigeno” che cerca di spiegargli il significato della parola. Però non e così semplice, non sempre l’indigeno ha le idee chiare, non sempre riesce a comunicare in maniera ottimale il suo pensiero, non sempre è facile recepirlo e non sempre si risce a capire se quello che ti dice lo dice per compiacerti o meno! Le parole logicamente sono state “registrate” a Crespina, però sono le stesse che si sentono nei Comuni circostanti e in buona misura in tutta la zona pisana e oltre. Il mio consiglio al lettore e questo: leggi, assapora e gusta, significando che queste parole vanno lette e poi assaporate lentamente e gustatecon quel loro aroma antico, genuino, direi “ruspante” per rendere l’idea.

Sono parole naturali rispetto a quelle moderne che vengono dall’inglese e sembrano false, di plastica! Vanno quindi assaporate lentamente come un vino pregiato e quindi gustate in tutta la loro naturalezza e semplicità .

Logicamente anche prima in italiano sono entrate delle parole straniere, però hanno subito una specie di lavaggio e adattamento per cui diventavano italiane: rosbiffe, tramme, bistecca, ecc. Ora sarebbero rimaste roast beef, tram, beef steak, con le più varie pronunce ad eccezione di quella inglese! Di fatto irriconoscibili per un inglese.

Per finire devo dire che in questa raccolta vi sono anche parole italiane, cioè parole che qui vengono preferite ad altre, penso a seggiola rispetto a sedia, spengere a spegnere, ecc. Va inoltre tenuto presente che il confine tra il dialetto toscano e la lingua italiana non è facilmente delineabile, essendo le differenze molto sottili e spesso inesistenti. Con altri dialetti sarebbe stato molto più facile. Vi sono inoltre delle parole che in lingua non vengono più usate o molto raramente, mentre nel dialetto sono sempre vive.

Per quanto riguarda l’eliminazione della lettera c, dove la pronuncia può dare adito a dubbi, ho preferito segnalarla con una linea di divisione per indicare la pronuncia separata delle due vocali (es.: pani-ato5). Per le forme del verbo avere con ci, ho pensato di usare la forma ciò per indicare ci ho. E così cià , ciaveva, ecc. Ci hai l’ho indicato cià’ per distinguerlo da cià , ci ha. Per quanto riguarda una parte della desinenza dei verbi all’infinito, che nel dialetto viene eliminata (mangià per mangiare) ho creduto opportuno non segnalarla tra parentesi temendo un appesantimento eccessivo della frase. In certi casi non ho invece indicato il raddoppio della consonante considerato che nemmeno in lingua viene segnato. Si scrive vado a casa e non vado a ccasa. Penso quindi che anche in dialetto si debba usare lo stesso metodo. Quindi più meglio e non più mmeglio! Non ho indicato nemmeno la traduzione di parole dialettali che ognuno può andarsele a vedere da sé́ se non capite. Ho quindi lasciato solo qualche indicazione minima ritenuta indispensabile. Vorrei chiarire ancora meglio che questa raccolta non ha nessuna pretesa e viene presentata, dopo molti dubbi e scoraggiamenti, nella speranza che pur “empirica e impacciata” possa essere utile ai veri studiosi.

Infine desidero ringraziare il Sindaco Thomas d’Addona, il Vicesindaco Iselda Barghini e tutta l’Amministrazione comunale.

Crespina, novembre 2009

Giacomo Pardini

1Il sottotitolo era stato costruito in modo che l'acronimo formasse la parola Fein, da unire a Sinn.

2Ora scriverei sïuro

3Ora scriverei amïa

4Ora scriverei panïato

5Ora scriverei panïato